La mia vita con un po' troppo testosterone per casa...
Ho modificato la grafica del blog. Quella sullo sfondo è l'incasinatissima libreria di casa Piselloni...
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mercoledì 30 ottobre 2013

Mi parte l'embolo 2. Suche e campi santi



Voglio inaugurare con questo post una nuova rubrica (o a new segment come direbbe David Letterman) che si intitolerà “Mi parte l’embolo”. In pratica ne approfitterò per dire la mia modesta ed incazzosa opinione su un argomento che mi sta particolarmente a cuore.
Questo è già il secondo episodio della rubrica perché, in realtà, il primo embolo mi era partito già l’anno scorso quando mi scagliai contro le talebane dell’allattamento.


Ma veniamo a noi.
Domani è Halloween. Già da qualche giorno siamo circondati da zucche, fantasmi, streghe e ragnatele. Ricette mostruose nei siti di cucina, maschere, scheletri e spade nei negozi di giocattoli, zucche intagliate nei mammy blog.
Poco male. E’ il consumismo, baby. Del resto la stessa solfa si ripete a Natale, San Valentino, Festa della mamma e Festa della porchetta. Qualche giorno di bombardamento mediatico e poi il nulla.
Personalmente ho imparato a fare orecchie da mercante. Se una cosa mi interessa la leggo, altrimenti passo. C’è però immancabilmente chi storce il naso, per usare un eufemismo, ed altrettanto immancabilmente sputa la seguente banale stupida e, se vogliamo, mica tanto veritiera frase: “E’ solo una festa commerciale…”
Ad Halloween però le cose si complicano. Perché Halloween, festa praticamente nazionale oltreoceano, è arrivata in Italia solo da pochi anni ed è quindi, per molti, ancora una novità. Perché in Italia va di moda essere anti americani. E perché in Italia festeggiamo il giorno di Ognissanti. Ecco quindi che in questo periodo dell’anno una schiera di fondamentalisti cattolici si arma di crocifissi e rosari e conduce una assurda battaglia contro le zucche. E organizzano addirittura delle veglie di preghiera nella notte delle streghe per pregare per quei dannati che si vestono in costume e vanno a ballare o contro quei poveri bambini che bussano alle porte dei vicini in cerca di un cioccolatino.

Ma stiamo scherzando?!?!?! (ecco, l’embolo è partito). E badate bene che sono cattolica anch'io...

Per prima cosa: ma sapete leggere i calendari? Halloween è il 31 ottobre, Ognissanti il 1 novembre. Sono due giorni diversi, come Natale e Santo Stefano, Pasqua e Pasquetta, 25 aprile e Primo maggio. Due giorni diversi, due feste diverse. Non ci piove. E non venitemi a parlare della festa dei morti che quella è addirittura due giorni dopo.
Seconda cosa: una festa non esclude l’altra, anche se una è sacra e l’altra profana. Non succede così praticamente tutti i week end ?(no, scusate, fine settimana, che voi l’americano non lo parlate). Non succede anche a voi e ai vostri figli che magari il sabato si esce, si va a ballare, si beve un po’ e poi la domenica si va in Chiesa? Non succede anche a Natale che prima c’è la Messa e poi il pranzo coi parenti condito di ben poco sacri panettoni, spumanti e regali?
Terza cosa: ma che male vi hanno fatto le zucche? Oltre ad essere buone non sono anche tanto belline e decorative? Non sono di stagione anche da noi? Non è l’arancione un colore che ben si sposa con i colori della natura in questo periodo? Perché non decorarci anche il salotto?
Ma soprattutto: perché non vi fate un bel piatto di cazzi vostri?

Ok, embolo rientrato.

A casa Piselloni domani sera faremo una festicciola di Halloween solo noi quattro, e mangeremo porcherie seduti per terra. I bambini si vestiranno in maschera ma non ci sarà nessun jack O’Lantern perché sono una frana con il coltello e comunque la zucca preferisco mangiarmela. Poi venerdì andrò a Messa, visto che è pure il mio turno per leggere la lettura.
Forse il meglio di tutti è mio figlio Checco che Halloween lo pronuncia Aulin. Ecco, prendiamocene tutti quanti una bustina disciolta nel prosecco…

Buon Aulin a tutti! E al prossimo embolo.

Informazione di servizio: “suche” è “zucche” in dialetto veneto.

martedì 22 ottobre 2013

Anche noi



Ebbene sì, ci siamo dentro anche noi. Siamo entrati nel vortice e dio sa quando ne usciremo, se ne usciremo.
Lo leggevo sui blog, lo vedevo in televisione. Un po’ mi chiedevo quando sarebbe toccato ai miei figli e, di conseguenza, a tutta la famiglia. Mi sorprendevo che a quattro anni Checco non fosse ancora stato contagiato.
E mi chiedevo quanto questo avrebbe influito sul nostro menage familiare, sui discorsi a tavola, sui programmi da vedere in tv.
E’ iniziato, forse, con un cartone animato, poi è stata la volta di quel pupazzo comprato a Verona, il libretto che già avevamo in casa ed un altro, molto più specifico comprato nuovo di zecca, per finire con youtube, filmato dopo filmato, dai documentari del National Geografic alle canzoncine sceme, a pezzi di un vecchio ma sempre bellissimo film.
Sì, ci siamo dentro. I miei figli hanno scoperto i DINOSAURI. Vi prego, salvatemi.


P.S. Il vecchio e bellissimo film è, manco a dirlo, Jurassic Park. Vent’anni e non sentirli.

giovedì 10 ottobre 2013

Apologia del centro commerciale



Un centro commerciale è un complesso edilizio omogeneo nel quale si concentrano numerose attività commerciali quali punti vendita di grande distribuzione organizzata, negozi specializzati, cinema, ristoranti, banche e servizi. (cit. Wikipedia).

Si narra che l’invenzione del centro commerciale risalga ad una coppia di imprenditori del New Jersey i quali, in prossimità delle feste natalizie, portando a passeggio per le strade della loro città i loro gemellini di due mesi, si siano trovati improvvisamente nella impellente necessità di cambiare il pannolino di uno dei piccoli. Essendo troppo freddo per cambiare il bambino in equilibrio su una panchina, i due si misero alla caccia di un bar con un bagno provvisto, se non di fasciatoio, quantomeno di una parvenza di tavolino, ma la ricerca fu vana. Mentre il gemello col pannolino pieno di cacca piangeva disperato l’altro si rese immediatamente conto di avere fame. La medesima coppia quindi si rifugiò in un bar, peraltro stracolmo di clienti, e la mamma attaccò il bimbo al seno cercando di non dare troppo nell’occhio. Cosa, questa, che evidentemente non riuscì, stanti gli sguardi di riprovazione che riceveva da questo o da quell’altro avventore. In quel momento il padre notò, in un angolo del bar, una famigliola; i malcapitati genitori cercavano disperatamente di bere un caffè e contemporaneamente arginare l’irruente vivacità dei loro pargoletti che non ne volevano sapere si stare seduti al tavolino e bere il loro bicchiere di succo. Tutto questo ancora sotto gli sguardi di riprovazione che ricevevano da questo o da quell’altro avventore del bar.
Tornati finalmente a casa e ripresisi dall’allucinante pomeriggio i due imprenditori si attivarono per la
costruzione di un’area coperta dove le famiglie potessero dedicarsi allo shopping, ma dove ci fosse un’adeguata attenzione verso i più piccoli. In questa neonata area commerciale, il cui nome sembra fosse Welcome Children, predisposero dei bagni per i bambini con fasciatoio e servizi su misura, degli spazi gioco, dei locali di ristorazione con menu personalizzato, panchine e divanetti per riposarsi ed eventualmente allattare.


 Altre fonti, invece, sembrano far risalire l’introduzione del centro commerciale ad un gruppo di pediatri del North Carolina esasperati dalla fila di bambini mocciolosi e catarrosi che soggiornava perennemente nelle sale d’attesa dei lori studi. Una volta appurato che l’origine di questi malanni era un pomeriggio trascorso entrando ed uscendo a rotazione in negozi con una temperatura media di 25° quando all’esterno si stava sullo zero o di 15° quando fuori l’afa e il tasso di umidità producevano un microclima da sauna finlandese, decisero di unire le proprie forze e i propri pingui conti corrente per ristrutturare un vecchio calzaturificio dismesso e dare in gestione gli spazi ricavati a piccoli commercianti locali che aprirono lì la loro attività. Il risultato fu un’immensa area coperta (sembra che il nome di questo prototipo di centro commerciale fosse S.C.E Same Climate Everywhere)  riscaldata in inverno e climatizzata in estate dove entrare ed uscire dai negozi agevolmente, e dove fosse possibile dedicarsi allo shopping anche nei grigi pomeriggi di pioggia permettendosi il lusso di lasciare l’ombrello in macchina.

Alcuni studiosi hanno riscontrato come nella nascita dei centri commerciali un grosso imput sia arrivato dalle associazioni di disabili i quali auspicavano un’area priva delle barriere architettoniche rappresentate da quei piccoli dislivelli che si incontrano spesso all’ingresso di un negozio, dislivelli che, quasi insignificanti per chi li fa camminando, diventano insormontabili per una sedie a rotelle (o per un passeggino ndr).

Nel giro di pochi anni il fenomeno dei centri commerciali si diffuse rapidamente in tutto il mondo tanto da diventare un vero e proprio fenomeno di costume. In particolare si nota come la fruizione degli stessi abbia progressivamente perso l’esclusività del commerciale in senso stretto per connotarsi come luogo di incontro e di aggregazione.
Come scrive la nota blogger Silvia Amoricolpisello nel suo pamphlet “Dalle piramidi egizie alle Piramidi di Torri di Quartesolo. Importanza del centro commerciale nella società contemporanea”, il centro commerciale è ad oggi meta prediletta da adolescenti e da famiglie. Gli uni trovando in esso un diversivo rispetto alle “quattro vasche” in centro, diversivo peraltro molto spesso più conveniente per le loro magre tasche, le seconde riuscendo a conciliare uno shopping a condizioni vantaggiose (gli ipermercati che si trovano all’interno dei centri commerciali hanno sovente prezzi competitivi) ed un ambiente a portata di tutti.

A  chi obietta che trascorrere il pomeriggio rinchiusi in un centro commerciale possa essere nocivo per il
benessere psico fisico dell’individuo e che piuttosto sia da preferire una passeggiata in campagna o una visita al museo, la succitata blogger, nel suo celebre saggio “Analogie e differenze tra gli spaghetti all’amatriciana e l’Happy Meal”, risponde che una cosa non esclude necessariamente l’altra e che la scampagnata all’aria aperta risulta difficilmente attuabile in caso, per esempio di temperatura equatoriali o siberiane. Senza contare che un paio d’ore di shopping non hanno mai ucciso nessuno.  

martedì 8 ottobre 2013

Ho letto: Alla fine di un'infanzia felice


Alla fine di un'infanzia felice

Raramente leggo autori italiani. Trovo che siano troppo “provinciali”, troppo campanilisti, e che manchino, quindi, di quel respiro internazionale che caratterizza, per esempio, gli scrittori americani in primis, ma anche gli anglosassoni e i nordeuropei.
Questo però mi incuriosiva. L’ho preso in biblioteca e la sua lettura non ha deluso le mie aspettative.
Al di là dello stile, molto ricercato ma nello stesso tempo di facile comprensione, quello che mi ha catturato è stata soprattutto l’originalità della trama. La storia parte descrivendo Guido, un professore friulano, collaboratore di una casa editrice, che riceve un manoscritto da vagliare per la pubblicazione. L’autore è un certo Sergio Casagrande che Guido ricorda essere un amico d’infanzia.
Un po’ scocciato inizia la lettura. Il manoscritto è diviso in tre sezioni. La prima racconta alcuni episodi dell’infanzia dei due episodi nei quali Guido si riconosce. La seconda cambia totalmente tono e narra di un tradimento e di una torbida storia d’amore. La terza parte riporta al presente descrive con impressionante precisione alcuni aspetti della vita di Guido, dimostrando come Sergio, l’autore del manoscritto si stia lentamente e subdolamente intrufolando nella sua vita. A questo punto il confine tra realtà e finzione si assottiglia sempre di più…